BIDEN E L’UNITA’ DELL’OCCIDENTE

Tutti gli osservatori hanno rilevato che “unità” è stata la parola più ripetuta dal nuovo presidente degli Stati Uniti, Joseph Biden, nel discorso inaugurale e giustamente l’hanno interpretata come concetto-cardine del suo appello ad una nazione che oggi appare divisa come non mai.

Nel discorso, indirizzato specialmente ai “fellow americans” dopo una lunga fase di lacerante contrapposizione, è stato per forza breve il passaggio dedicato al resto del pianeta: “Ripareremo le nostre alleanze e ci impegneremo ancora una volta con il mondo. Non per affrontare le sfide di ieri, ma quelle di oggi e di domani. Faremo da guida non solo con l’esempio della nostra potenza, ma con la potenza del nostro esempio. Saremo un partner forte e affidabile per la pace, il progresso e la sicurezza”. In realtà anche queste parole contengono un forte richiamo all’unità, intesa soprattutto come metodo, come modus operandi non solo all’interno del paese. A Donald Trump la nuova amministrazione rimprovera essenzialmente di aver diviso: tanto gli americani, quanto gli americani dagli alleati e gli alleati tra di loro. In politica estera, l’isolazionismo trumpiano, la sua molto personale declinazione dello slogan “America first” hanno prodotto effetti gravi e profondi. Tra un tweet e l’altro, per esempio, abbiamo visto spuntare il vagheggiamento di un ritiro dalla Nato, il plateale appoggio alla Brexit, il sostegno più o meno palese ai vari sovranismi, i tentativi di negoziare singolarmente con Paesi dell’Ue o addirittura di prestare garanzie personali a suon di pacche sulla spalla (ricordate la paterna compiacenza verso il disorientato “Giuseppi” del 2018?), la liquidazione del faticoso accordo con l’Iran e infine un atteggiamento tutt’altro che collaborativo nella lotta alla pandemia. Non c’è dubbio che la reimpostazione di una leadership transatlantica fondata per quanto possibile su valori e interessi realmente condivisi sia tra le sfide più importanti che l’amministrazione Biden dovrà affrontare.

Intanto un po’ di buoi sono scappati dalla stalla. La Cina si è mossa con efficacia e spregiudicatezza. Dopo aver firmato, nel novembre 2020, il più grande accordo di libero scambio del mondo, con 14 Paesi dell’Asia e del Pacifico, la Repubblica popolare ha accelerato i negoziati con l’Unione europea per chiudere a dicembre, prima del passaggio di testimone a Washington, l’accordo sugli investimenti in discussione dal 2013, fortemente voluto dalla Germania. Nella competizione globale con il gigante asiatico è urgente che gli Stati Uniti riassumano il ruolo di regista, La ricetta trumpiana a base di tariffe e sinofobia ha finito con l’incoraggiare il dumping cinese e favorire l’avversario, che è diventato più ricco e più forte. Al posto del vuoto nel quale ha potuto espandersi l’influenza cinese sul vecchio continente, subentrerà probabilmente uno sguardo più attento di Washington sulle mosse degli alleati, da richiamare al “gioco di squadra” occidentale. Un messaggio sarà recapitato anche all’Italia, dalla quale l’amministrazione Biden si attende meno strizzatine d’occhio alla Cina e più protagonismo nel Mediterraneo, dove abbiamo ceduto terreno alla Turchia e alla Russia di Putin.

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