AFGHANISTAN: L’AMARA E TRAGICA LEZIONE DI KABUL

GD – Roma, 17 ago. 21 – Non c’è dubbio che la “passeggiata militare” dei talebani verso le città dell’Afghanistan e la capitale Kabul (le zone rurali erano già in mano loro!) non sarebbe stata possibile senza il collasso, imprevisto e repentino, dell’esercito e delle istituzioni della fu repubblica afgana filooccidentale. Su questo fenomeno bisogna concentrarsi per capire che cos’è accaduto veramente.

A cose fatte, dopo vent’anni di impegno, centinaia di migliaia di vittime e miliardi di dollari gettati al vento, non ci si può rifugiare, come ha fatto il presidente degli Stati Uniti Joseph Biden, nella rassegnata considerazione che il progetto di “costruire una nazione, una democrazia unificata e centralizzata, rovesciando secoli di storia” era irrealizzabile. Su questo potremmo concordare con un politologo o con un filosofo della politica, non con il leader “de facto” dell’Occidente.
Se ancora l’ 8 luglio scorso Biden assicurava che non ci sarebbe stata una nuova Saigon (“Non vedrete mai la gente prelevata dal tetto dell’ambasciata”), vuol dire che a storici errori – l’ultimo attribuibile al predecessore Trump: la firma degli ambigui accordi di Doha con impegni precisi per gli americani e vaghe promesse da parte dei talebani) – si è unito il fallimento completo dell’intelligence, la totale incomprensione della situazione reale sul campo, sociale e civile prima ancora che militare.
La pioggia di denaro caduta sull’Afghanistan – oltre 2 mila miliardi di dollari stanziati solo per addestrare ed equipaggiare l’esercito afgano che, alla prova dei fatti, s’è squagliato – non ha ridotto la distanza abissale tra ricchi e poveri, tra potenti e deboli, tra capitribù e gregari senza speranze, né cementato la fiducia nelle nuove istituzioni modellate sull’esempio dell’Occidente e percepite sempre dalla popolazione come lontane ed estranee.
Il sospetto (a dir poco) è che molti di quei dollari siano finiti nelle tasche di signorotti locali della guerra – come quello di cui i talebani vincitori hanno invaso qualche giorno fa il salotto, decorato con gusto pacchiano – o di satrapi voraci e immeritevoli (fonti russe riferiscono che il presidente Ghani è scappato in Uzbekistan con quattro auto cariche di soldi).
Insomma, è verosimile che il progetto di “esportare la democrazia” sia in alcuni casi irrealizzabile, in altri francamente neanche auspicabile, ma tentare di esportare senza neppure conoscere e comprendere il Paese di destinazione, sulla base di un’antropologia un po’ sbrigativa e un po’ immaginaria, vuol dire votarsi alla catastrofe. Che puntualmente è arrivata: in una settimana, non in novanta giorni, come prevedevano i pessimisti.
Ringraziano i russi e soprattutto i cinesi, che con i talebani (politicamente cresciuti in questi vent’anni) hanno da tempo instaurato un dialogo proficuo e ora possono dar sfogo alle loro legittime ambizioni su questa parte della Via della Seta.
Non pervenuta, come troppo spesso accade, l’Unione Europea che pure del collasso di Kabul patirà le conseguenze più concrete: pagheremo con nuove ondate di profughi l’inesistenza di una politica estera comune anche sul problema afghano.
Paolo Giordani
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