Una “comprensione ravvicinata” delle culture dei popoli indigeni, buone pratiche (che in parte già esistono), norme più inclusive e più severe contro ogni forma di discriminazione. Sono le raccomandazioni del relatore speciale ONU sulla libertà di religione, il diplomatico maldiviano Ahmed Shaheed, nel suo rapporto sui popoli indigeni (https://documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/N22/620/28/PDF/N2262028.pdf?OpenElement).
La questione è indagata nel quadro del più ampio dibattito sull’efficacia e le modalità di applicazione dell’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani (enunciante il principio di libertà di fede per tutti i popoli) e la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici. In generale, si osserva che i popoli indigeni rappresentano una componente numericamente significativa della popolazione mondiale (476 milioni in 90 Paesi) e che il tema della protezione del loro diritto alla libertà nell’esercizio della spiritualità (intesa in senso lato come ‘modo di vita’, ‘visione del mondo’, ‘prassi’) si presenta come essenzialmente intrecciato alla preservazione della loro comunità e dell’integrità sociale e culturale di quest’ultima. Problemi importanti come lo sviluppo tecnologico e sostenibile, la libertà di espressione delle comunità indigene e il loro rapporto con il territorio sono direttamente connessi alla protezione della libertà di fede.
A questo proposito, si rileva una certa inadeguatezza del quadro normativo costituito, fra l’altro, dall’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani e dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, che propongono un apparato concettuale ‘occidentale’ e inadatto alle caratteristiche specifiche di queste comunità (definite impropriamente come ‘minoranze’ o come dotate di strutture ‘istituzionali’).
Il Rapporto enuncia due dati di fatto: le comunità indigene sono frequente oggetto di pratiche di assimilazione forzata e di mancato riconoscimento. Non solo il diritto a praticare la propria fede è sovente compromesso dalla sottrazione della terra o dall’imposizione di complessi passaggi amministrativi, ma l’assimilazione prende forme di cruda violenza come la deportazione, l’imposizione di istruzione, lingua e norme sociali ‘dominanti’, fino alla prevaricazione fisica (gravidanze forzate e impianti intra-uterini).
La possibilità di godere di un rapporto integro e completo con la terra e le pratiche religiose ad essa connesse è ampiamente compromessa dall’urbanizzazione, dall’assimilazione e dal cambiamento climatico e tecnologico, che sottrae campi, zone adibite alla pesca, aree cerimoniali e abitative. In molti Stati (Giappone, Germania, Svezia e Norvegia) le cerimonie rituali indigene sono state o represse sulla base della loro contrarietà al pudore e al buon costume, o fatte oggetto di appropriazione a scopi turistici.
In generale, si osserva che le donne costituiscono una componente particolarmente vessata in seno a queste comunità: la violenza di genere, la persecuzione in quanto ‘streghe’ e le pratiche patriarcali (imposte a società in molti casi originariamente strutturate in modo più egualitario) si aggiungono alle discriminazioni etniche. Ciò vale anche per la componente omosessuale e in generale per i problemi dell’identità di genere. Inoltre c’è l’aspetto della partecipazione civile e politica: le comunità indigene sono spesso oggetto di repressione poliziesca, negazione della cittadinanza, restrizioni nell’accesso alla rete informatica e al voto, così come alla giustizia e alla tutela legale.
La risposta non sta solo nelle buone pratiche, che pure esistono (per esempoio inGroenlandia, Repubblica Democratica del Congo e Canada), ma nell’approccio fondato sulla comprensione ravvicinata e olistica della cultura delle minoranze e sull’abbandono di ogni gerarchia confessionale. A questo fine il rapporto raccomanda di ampliare la consapevolezza pubblica sui diritti degli indigeni e di sviluppare strumenti normativi adeguatamente complessi e procedure partecipative inclusive. Si auspicano anche misure che assicurino la punibilità delle condotte violente e di prevaricazione, ed inoltre la predisposizione di un apparato informativo e analitico per monitorarle, sia nei confronti degli attori statali che di quelli privati.