DANIMARCA: C’È EUROPA NELLA SCELTA STORICA D’ADERIRE A DIFESA COMUNE EUROPEA

GD – Roma, 3 giu. 22 – Tra gli effetti inaspettati della guerra scatenata dalla Federazione Russa in Ucraina il 24 febbraio scorso sicuramente va annoverata la scelta referendaria della Danimarca di rinunciare alla trentennale esenzione (il cosiddetto opt-out) dalla politica di difesa europea.
Quella dei rapporti tra Danimarca e UE è una storia tormentata. Il 2 giugno 1992 il referendum danese sulla ratifica del Trattato di Maastricht aveva avuto esito negativo. Contro si pronunciarono, infatti, il 50,7% dei votanti (1.652.999), a favore il 49,3% (1.600.730): il no prevalse, pertanto, per soli 52.269 voti.
Il 27 ottobre, sette degli otto partiti rappresentati al Folketing pervennero ad un “compromesso nazionale” con il partito socialista popolare, che aveva sostenuto le ragioni del “no” al referendum e che, nella sostanza, rifiutava qualsiasi sviluppo politico e di impronta sovranazionale della costruzione europea, conformemente al tradizionale approccio di Copenaghen: limitarsi alla cooperazione sulle questioni economiche e al mercato comune.
Il particolare statuto relativo alla difesa prevedeva che la Danimarca, peraltro Paese membro fondatore della NATO, non avrebbe preso parte alla politica comune di difesa, né tanto meno alla difesa comune né avrebbe aderito all’UEO-Unione Europa Occidentale).
L’opting-out allora previsto (riguardante anche la terza fase dell’Unione economica e monetaria, gli impegni in materia di cittadinanza europea ed i trasferimenti di sovranità in materia di giustizia e affari interni) avrebbe dovuto essere tradotto in un atto giuridicamente vincolante, di durata illimitata, che avrebbe potuto giustificare la convocazione di un nuovo referendum.
Pertanto, il Consiglio europeo di Edimburgo dell’11 dicembre 1992 adottò un insieme di documenti, tra cui spicca la decisione dei capi di Stato e di governo concernente alcuni problemi sollevati dalla Danimarca sul trattato.
Vi si precisa, tra l’altro, che la Danimarca non partecipa all’elaborazione o all’attuazione di decisioni o iniziative dell’UE con implicazioni in materia militare ma che, nel contempo, non ostacolerà lo sviluppo di una stretta cooperazione fra gli Stati membri in questo settore.
Inoltre, si prende atto che la Danimarca rinuncerà ad esercitare la presidenza del Consiglio ogniqualvolta si tratti di elaborare e mettere in atto decisioni ed azioni con implicazioni nel settore della difesa.
Per quanto riguarda, infine, le decisioni da prendere all’unanimità, la precisazione contenuta nella decisione di Edimburgo equivale ad una astensione dichiarata dalla Danimarca in anticipo.
Un nuovo referendum, tenuto il 18 maggio 1993, con un’affluenza alle urne elevata (85%) approvò la ratifica del Trattato di Maastricht con il voto positivo del 56,8% degli elettori danesi; lo scarto a favore del “sì” fu superiore a 500.000 voti.
Per trent’anni, quindi, Copenaghen ha mantenuto gli opt-out ottenuti ad Edimburgo nel 1993 e confermati con il protocollo sulla posizione della Danimarca, adottato ad Amsterdam il 2 ottobre 1997 ed allegato ai trattati dell’UE.
Nel tempo, i Governi danesi hanno tuttavia tentato di ridurre questi opt-out, organizzando dei referendum su euro (2000) e sul pilastro giustizia e affari interni (2015), che ebbero esito negativo.
Perciò il risultato positivo del referendum sulla difesa del 1° giugno scorso, lanciato dal Governo il 6 marzo, a undici giorni dall’invasione russa dell’Ucraina, rappresenta una significativa inversione di tendenza nella politica europea della Danimarca.
I voti favorevoli si sono attestati al 66,9% (1.848.738), mentre quelli contrari si sono fermati al 33,1% (914.829).
Mai nei referendum che hanno accompagnato la partecipazione della Danimarca alle Comunità Europee e all’Unione Europea (in quello del 1972, sull’adesione i sì erano stati il 63,4%) si era registrato una così elevata percentuale di suffragi favorevoli, perfino confermando al rialzo le rilevazioni dei sondaggi, pur con una partecipazione certamente non lusinghiera (il 65,6% degli aventi diritto).
Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e l’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, hanno definito il risultato una scelta “storica” e la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in un tweet ha sottolineato che l’esperienza della Danimarca in materia di difesa è unanimemente apprezzata e che l’UE ne trarrà vantaggio.
La premier danese Mette Frederiksen, che ha abbandonato dopo la pandemia le tradizionali posizioni euroscettiche, probabilmente convinta dai benefici “valoriali” derivanti dalla partecipazione all’UE, ne ha tratto un notevole successo personale ad un anno dalle prossime elezioni legislative e ha rilevato che la scelta del popolo danese è “un chiaro segnale” per il presidente Putin.
È un segno ulteriore e palese della mutazione genetica nell’Unione Europea e nei suoi Stati membri provocata dall’invasione russa.
Si può ben dire che “c’è un prima e un dopo il 24 febbraio 2022”, come dimostrano anche i sei pacchetti di sanzioni adottate contro Mosca.

Ora, però, sul piano formale, la parola passa al Folketing. Il parlamento monocamerale danese deve adottare la decisione di revoca dell’opting-out, che il Governo confida di trasmettere a Bruxelles entro il prossimo 1° luglio, conformemente all’art. 7 del protocollo del 1997, secondo cui la Danimarca può in qualunque momento, secondo le proprie norme costituzionali, informare gli altri Stati membri che non intende più avvalersi, in tutto o in parte, dell’esenzione.
L’assenso del Parlamento, previsto dall’art. 19 della Costituzione in tema di ratifica dei trattati internazionali, non dovrebbe incontrare ostacoli dato che alla decisione di revoca si sono dichiarati a favore 11 partiti, compresi quelli della coalizione di Governo, a guida socialdemocratica, su 14 e contrari soltanto due partiti euroscettici di estrema destra ed uno di estrema sinistra.
La partecipazione alla cooperazione europea in materia di difesa, come, ad esempio, all’operazione di peacekeeping in Bosnia-Erzegovina, a quella antipirateria davanti alle coste della Somalia, alla cooperazione finalizzata allo sviluppo e all’acquisizione di capacità militari nel quadro dell’Unione, alla partecipazione all’Agenzia Europea per la Difesa, nonché ai progetti di cooperazione sulla cybersicurezza, comporteranno un significativo aumento del bilancio della difesa, contestualmente proposto dal Governo e già concordato in sede parlamentare, fino alla quota del 2% del PIL, stabilita in sede NATO (attualmente Copenaghen è circa all’1,5%), da raggiungere entro il 2033, con una spesa annua pari a circa 18 miliardi di corone danesi (2,38 miliardi di euro), che si aggiunge ad uno stanziamento di ulteriori 7 miliardi di corone, per i prossimi due anni, allo scopo di rafforzare le politiche in materia di difesa, diplomazia e aiuto umanitario.

Carlo Curti Gialdino
Vicepresidente
Istituto Diplomatico Internazionale
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