Roma, 24 febbraio 2022. Cinquecento anni fa un grande italiano spiegò al mondo che politica e morale sono distinte e spesso distanti. Più di qualcuno, al di là e al di qua dell’Atlantico, non l’ha ancora capito o fa finta di non capire. Lo sa benissimo, invece, il presidente russo Vladimir Putin che questa mattina, quarantott’ore dopo aver riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, ha ordinato l’invasione dell’Ucraina. Sia chiaro, e non lo ripeteremo mai abbastanza: le minacce, la violazione della sovranità di uno Stato e l’uso della forza per risolvere le controversie meritano la più severa condanna da parte della comunità internazionale. E nulla può giustificare la perdita di vite umane, chissà quante, che quest’attacco comporta. Però suona davvero ipocrita il tono moraleggiante di certi leader e osservatori politici che si indignano e ostentano, oltre alla riprovazione, una dose davvero eccessiva di sorpresa.
C’è poco da sorprendersi: ogni grande potenza, o blocco di potenze, crea e coltiva intorno a se stessa una zona di rispetto. L’Unione sovietica violò la zona di rispetto americana nel 1962, quando tentò di installare missili a Cuba. Il presidente Kennedy comprensibilmente reagì mandando la flotta e il mondo fu davvero ad un passo dalla terza guerra mondiale. Dopo la dissoluzione dell’URSS e del Patto di Varsavia, approfittando della debolezza della nuova Russia, l’Alleanza atlantica si è allargata innanzitutto ai Paesi europei del defunto Patto e ai baltici. La reazione russa è scattata nel 2008, quando prese corpo l’ipotesi di far entrare nell’Alleanza anche la Georgia, che con Bielorussia e Ucraina fa parte della “zona di rispetto” ritenuta “inviolabile” da Putin: le regioni separatiste di Abkhazia e Ossezia passarono sotto il controllo russo. Ma il Caucaso, per quanto strategico, è lontano da Mosca. L’Ucraina no. E’, letteralmente, la “periferia” della Russia, un paese diviso in due, la cui parte orientale ha condiviso con il grande vicino mille anni di storia (a parte un breve e tumultuoso intervallo nel 1917-22 e l’indipendenza dal 1991). Kiev aveva annunciato pubblicamente il proprio interesse ad aderire alla Nato già nel 2002 e aveva poi richiesto un piano d’azione per l’adesione nel 2008. Il fatto che l’Alleanza non l’abbia mai concesso la dice lunga sulla percezione del rischio negli stessi circoli atlantici. Quanto fosse fondata la preoccupazione si è visto nel 2014: quando il Parlamento ucraino, sotto la spinta delle proteset filoeuropee, esautorò il presidente filorusso Janukovic, Putin reagì occupando la Crimea, russa per popolazione e lingua, e poi annettendola tramite un contestato plebiscito. Sull’indipendenza del paese, con forti toni nazionalisti e filoccidentali, aveva puntato Volodymyr Zelensky, il comico televisivo eletto nel 2019 presidente dell’Ucraina, particolarmente incoraggiato, in chiave anti-russa, dalla debole amministrazione Biden. Troppo, per Putin, che – ora è evidente – preparava da tempo, non fidandosi più di nessuno, un’operazione militare su vasta scala.
Al dunque è facile, ma del tutto inutile, piangere sul latte versato. La presidenza Biden arranca in politica interna e cerca improbabili compensi nella competizione globale con Cina e Russia. L’Unione europea non è unita, non ha un suo esercito e una sua politica di sicurezza: mai Putin l’ha considerata neanche come interlocutore. In sintesi, l’Occidente non è stato capace né di fornire alla Russia adeguate garanzie (come ricordava ieri l’ambasciatore Sergio Romano, un’Ucraina neutrale sarebbe stata più forte e rispettata) né di mostrare vera determinazione nel rispondere al dinamismo russo. Le sanzioni sono un’arma spuntata: se praticate sul serio, in entrambe le direzioni, faranno più male a paesi come la Germania e l’Italia di quanto ne faranno al bersaglio. Putin, un po’ volpe e un po’ leone, non si fermerà certo per questo. Scommette su un Blitzkrieg, una guerra-lampo che lo porti ad ovest. Quanto ad ovest? Lo vedremo.