Negli ultimi 20 anni, circa mezzo milione di italiani tra i 18 e i 39 anni si sono emigrati all’estero, soprattutto in Paesi dell’Unione Europea economicamente più ricchi rispetto all’Italia: Germania, Francia e Regno Unito.
E queste sono solo le informazioni ufficiali. I numeri reali sono, sfortunatamente, molto più alti, forse più del doppio.
Perché i giovani italiani sono così desiderosi di partire?
Non è per mancanza di rappresentanza politica. Dal 2013, la quota del Parlamento italiano under 40 anni è passata dal 7% al 13%.
Inoltre, l’Italia ha avuto uno dei governi più giovani tra i Paesi avanzati (superata solo dalla Francia) con l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi che, a 41 anni, è stato il più giovane capo dell’esecutivo di sempre.
Tuttavia, i giovani italiani rimangono profondamente insoddisfatti dello stato del loro Paese e delle opportunità lavorative che può offrire.
Infatti, nonostante le promesse dei governi, attraverso riforme volte a ringiovanire l’economia e le istituzioni del Paese, gli ultimi dati Istat[1] illustrano che nel 2018 sono partiti 117mila italiani, di cui 30mila laureati.
In quell’anno la disoccupazione giovanile era al 39% – uno dei tassi più alti dell’UE e ben al di sopra della media del 20% del blocco europeo.
Si sottolinea però come, con l’allentamento delle misure post-pandemia (2021) il tasso di disoccupazione sia sceso al 9,2%, nel complesso.
A novembre 2021 gli occupati sono cresciuti di 64mila unità su ottobre e di 494mila unità su novembre 2020. Sono calati anche gli inattivi. Lo rileva l’Istituto nazionale di statistica, sottolineando che l’occupazione è cresciuta di 700mila unità su gennaio 2021 mentre è ancora inferiore al periodo pre-pandemia (febbraio 2020) di 115mila unità.
Tuttavia, gran parte degli occupati hanno ragioni per essere infelici in Italia.
Secondo Eurostat, i giovani italiani sono molto insoddisfatti del loro lavoro, e delle mansioni ricoperte. Molti condividono l’idea che vi sia ancora un importante nepotismo e poca meritocrazia.
Ad inasprire la situazione vi è sicuramente la stagnante economia italiana.
Il periodo 2012-2014 è stato particolarmente difficile, a causa di una profonda e prolungata recessione che ha portato ad un calo del 2,1% del PIL reale e del 4,3% del reddito reale pro capite.
Inoltre, ad incombere sulla precarietà della nostra economia è arrivato il Covid-19 (2019 – 2021) dove le chiusure (o le limitazioni) che hanno interessato la maggior parte delle attività economiche italiane, hanno avuto un impatto di vasta portata sul mercato del lavoro.
In primis, la perdita di posti di lavoro, congiuntamente alla diminuzione di ore lavorate, la quale, all’inizio della pandemia è stata maggiore di quella registrata durante la crisi finanziaria globale del 2008-2010.
Le categorie di lavoratori più colpite dall’emergenza sanitaria sono state principalmente quelle degli occupati temporanei, dei giovani e delle lavoratrici a bassa retribuzione.
Nelle varie fasi della storia italiana non sorprende che per molti giovani l’emigrazione sia apparsa come un’opzione migliore alla disoccupazione o alla sottoccupazione in Patria, dove devono contare sul sostegno delle loro famiglie.
Certo, alcuni finiscono in lavori precari o insoddisfacenti all’estero. Ma per i più abili e qualificati, le possibilità di costruire una carriera nel campo prescelto all’estero sono significativamente più alte che in Italia.
Non sorprende che siano proprio i più qualificati ad andarsene.
Questa tendenza è iniziata alla fine degli anni ’80, con accademici e ricercatori che non riuscivano a trovare un posto nelle Università locali. Da allora molti altri professionisti, specialmente del settore sanitario, si sono uniti a loro.
In una certa misura, questa tendenza viene compensata dall’immigrazione, con tre nuovi arrivati (ufficialmente) per ogni italiano che parte. Per l’equilibrio demografico dell’Italia, questo afflusso di stranieri, poco più di cinque milioni di persone, l’8,3% della popolazione, è uno sviluppo positivo.
Ma l’offerta limitata di posti di lavoro più qualificati nel nostro Paese, rispetto ad altri stati avanzati dell’UE, influenza anche i flussi migratori.
Con il 30% dei lavoratori stranieri che ritengono di essere troppo qualificati per la loro occupazione, l’Italia sta perdendo il suo “appeal”, soprattutto per i professionisti qualificati. È chiaro che coloro che rimangono in Italia, connazionali o stranieri, tendono ad essere i meno qualificati.
Istat rileva che in Italia, nel 2019, solo il 62,2% delle persone tra i 25 e i 64 anni possiede un diploma. Un valore decisamente inferiore a quello medio europeo (78,7% nell’Ue28) e a quello di alcuni tra i più grandi Paesi dell’Unione: 86,6% in Germania, 80,4% in Francia e 81,1% nel Regno Unito. Solo Spagna, Malta e Portogallo hanno valori inferiori all’Italia.
Dati preoccupanti riguardano anche le parità di genere.
Infatti, nonostante i livelli di istruzione delle donne siano più elevati, il tasso di occupazione femminile è molto più basso di quello maschile (56,1% contro 76,8%) evidenziando un divario di genere più̀ marcato rispetto alla media Ue e agli altri grandi Paesi europei.
Tuttavia, l’Italia, insieme ai suoi partner europei, si è già impegnata a migliorare questi risultati educativi. La strategia di crescita Europa 2020 della Commissione europea, volta a creare “un’economia intelligente, sostenibile e inclusiva”, ha richiesto ai Paesi una riduzione entro il 2020 della percentuale di abbandono scolastico al di sotto del 10% e la garanzia che almeno il 40% delle persone di 30-34 anni abbia completato una qualche forma di istruzione superiore.
Nonostante questo impegno, Istat[4] evidenzia che, dal 2019, in Italia, la quota di giovani laureati è rimasta quasi invariata (27,6%; -0,2 punti rispetto al 2018) mentre l’Unione europea, la Francia, la Spagna e il Regno Unito (pur avendo già superato l’obiettivo strategico del 40%) registrano, nel 2019, un ulteriore aumento (+0,9, +1,3, +2,3 e +1,2 punti). L’Italia resta dunque al penultimo posto nell’Ue, in posizione davvero isolata, seconda solo alla Romania.
Ma questi obiettivi rappresentano solo una piccola parte di una strategia efficace per rivitalizzare l’economia italiana e la capacità di attrarre i migliori talenti. Il resto del supporto deve venire dalle istituzioni italiane.
Il nostro governo dovrebbe mantenere la sua promessa di migliorare ulteriormente la flessibilità del mercato del lavoro e combattere la corruzione, anche sotto forma di nepotismo.
Dati i venti contrari di un’economia mondiale post-pandemia fiacca e l’eredità di una lunga recessione, tuttavia, le riforme saranno difficili da attuare, o come minimo, ci vorrà del tempo.
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