BALCANI, L’ITALIA SI DESTI

La politica estera, com’è noto, entra di rado nel dibattito pubblico italiano. A maggior ragione è forte la tentazione di concentrarci su noi stessi in un momento storico come quello che il nostro Paese sta attraversando, di crisi (non solo per la pandemia) e di transizione verso una nuova fase politica, con la nascita del governo Draghi. Ma proprio fuori del portone di casa c’è un “estero” troppo vicino, e troppo importante, per consentirci ulteriori disattenzioni. Penso alla sponda africana del Mediterraneo e ai Balcani dove negli ultimi anni vari attori geopolitici, vecchi e nuovi, perseguono energicamente i loro (legittimi) interessi. Anche a scapito dei nostri.

Tramontata “de facto” la prospettiva di un ingresso nell’Ue, la Turchia, che resta paese “candidato” e partner fondamentale dell’Unione, ha da tempo avviato una politica di espansione ben oltre la tradizionale sfera d’influenza, il Mediterraneo orientale, sulle orme del vecchio Impero Ottomano. Oggi la presenza turca è forte in Libia, a più di un secolo dalla sconfitta contro l’Italia di Giolitti (1912), ed è particolarmente sentita nei Balcani occidentali, rimasti a lungo sotto il dominio dei sultani. Bosgnacchi, kosovari, albanesi e torbesci (macedoni di fede musulmana) sono “la Mezzaluna d’Europa”. Sulla comune identità islamica il governo di Ankara ha puntato per tessere la sua tela, fatta di iniziative diplomatiche, aiuti, accordi economici e militari, iniziative culturali.

Non si può dire che l’Ue sia solo rimasta a guardare. Nonostante la crisi pandemica, ha mobilitato 3,3 miliardi di euro in aiuti per la regione. La dichiarazione di Zagabria, adottata il 6 maggio 2020 al termine del Vertice UE-Balcani occidentali, riafferma il sostegno inequivocabile dell’Unione alla  prospettiva europea dei Balcani occidentali, senza però fare esplicito riferimento all’allargamento dell’UE a tali Paesi. Con Montenegro e Serbia, i negoziati di adesione sono iniziati, rispettivamente, nel 2012 e nel 2014. Ma per anni l’Unione ha rinviato il via libera ai negoziati per Albania e Macedonia del Nord, che, autorizzati nel marzo scorso, non sono ancora partiti. Bosnia-Erzegovina e Kosovo sono soltanto “candidati potenziali”. La lentezza con cui avanza il processo di allargamento ai Balcani occidentali – per motivazioni di ordine politico, giuridico ed economico – alimenta l’attivismo di terzi: Russia, Cina e per l’appunto Turchia.

In aprile il Parlamento albanese ha ratificato un importante accordo militare con il governo di Ankara, che prevede tra l’altro l’ammodernamento delle forze armate di Tirana. Un anno fa è stato inaugurato nella capitale albanese il “Centro studi balcanici” della fondazione Maarif, ente  turco attivo in tutta l’area balcanica (ha scuole e centri di formazione in Kosovo, Macedonia del nord, Bosnia). Lungo la linea Pristina-Tirana-Skopje la Turchia sta creando un suo spazio geopolitico. E nuovo spazio di manovra le apre l’evidente debolezza dell’accordo di Washington sulla normalizzazione dei rapporti economici tra Pristina e Belgrado, imposto dal presidente Trump soprattutto per la propria convenienza elettorale. Oggi, in Kosovo, le urne si aprono per la sesta volta dalla proclamazione dell’indipendenza (2008). Favoriti sono i nazionalisti “di sinistra” del partito Vetevendosje (Autodeterminazione), guidati dall’ex premier Albin Kurti, ostile a quell’accordo e favorevole all’unione con l’Albania.

Sullo scacchiere balcanico l’Ue ha oggettivamente perso terreno e ne ha perso l’Italia, nonostante i plurisecolari rapporti con l’altra sponda dell’Adriatico, la strettissima cooperazione con l’Albania fin dagli anni Novanta e con il “neonato” Kosovo, gli aiuti economici e l’impegno nelle missioni militari: Kfor, con 27 nazioni contributrici, ma sotto il comando italiano, è una presenza ancora indispensabile per garantire sicurezza e stabilità nell’area. Abbiamo rilevanti interessi commerciali e politici da tutelare. Meglio non distrarsi troppo.

 

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